mercoledì 28 dicembre 2011

E se capitasse a una di noi?


Stefania Noce e suo nonno sono stati uccisi da uno che era stato il suo ragazzo . È la prima cosa che ho letto stamattina. 

La numero 93, o la 136, dipende da come conti. Sono donne, fidanzate, prostitute, mogli uccise da uomini, molte volte uomini che conoscevano bene, che forse avevano amato.
Quando leggi la notizia di Stefania non sai nulla. Stefania era di Catania. Sud arcaico e patriarcale, pensi subito. Così tanto basta per sentirti al sicuro, un altro caso (orribile) di violenza sulle donne, ma è lontano da te. 

Poi scopri che Stefania era una giovane brillante donna, un’attivista del movimento studentesco, consapevole e intelligente. Una sorella, una di noi. Una che “a noi non può capitare”, li sappiamo scegliere i nostri compagni, noi.

Allora come è stato possibile che Stefania sia stata uccisa da un uomo, da un ex?

E se capitasse a noi? Se fosse capitato alla mia amica S. (una compagna combattiva ora brillante ricercatrice di sociologia) che un tempo frequentava uno che la scaraventava contro le porte a vetri e che lei non lasciava perchè lui l’amava troppo?

Oppure a G., che sta con uno che la costringe a mettersi a dieta? O a  P. che sta con uno che non la fa uscire con le amiche, che sennò la rovinano?

Allora, hai voglia di parlare di educazione sentimentale, di compagni, di movimento.

domenica 18 dicembre 2011

Noi produciamo, noi scriviamo, perché dovremmo pagare per leggere? O forse sì?

Il sistema dell’editoria accademica italiana, in particolare quella specializzata in materie umanistiche è molto diverso da quello delle riviste scientifiche internazionali. La principale differenza è che mentre la produzione scientifica degli umanisti (in Italia) si concretizza in libri, gli altri (fisici, matematici, biomedici etc) pubblicano articoli su riviste (internazionali). L’interessante post di Luisa Cappelli sugli editori accademici a pagamento, mi ha fatto pensare che, recentemente, c’è una sorta di avvicinamento dei due modelli (dal punto di vista economico), sempre più infatti nascono riviste in cui sono gli autori a pagare per la pubblicazione. Lo chiamano open access. perchè i lettori possono accedere gratuitamente ai contenuti. Bello, vero? Oppure no?

Perché si pubblicano risultati? Nel mondo accademico la risposta è una sola: per iniziare/avanzare la carriera. In Italia la pressione a pubblicare (aka “publish or perish”) non è stata finora molto forte. Nelle discipline umanistiche, per diventare ricercatori bastava avere pubblicato una monografia (a pagamento o no, non importava) e per essere confermato ne serviva un’altra (più qualche intervento in atti di convegno, abstract inclusi). In Cina invece la pressione a pubblicare, su riviste peer reviewed, è fortissima.

Anche in Italia, con le nuove regole legate ai finanziamenti e alle carriere, la spinta a pubblicare è cresciuta notevolmente. È comune ormai sentire discorsi sul proprio h index o commenti tipo “non è più come una volta  che bastava un articolo all’anno, devi tirarne fuori almeno 3”. 

Giusto, direte voi. Questi ricercatori sono pagati per ricercare, quindi che pubblichino e siano giudicati per questo! Peccato che nella scienza non è detto che chi cerca trova… e non è detto che se non trovi hai lavorato male. Ma le riviste tendono a pubblicare solo se hai risultati (aka publication bias).

Giusto? Siamo sicuri? Innanzitutto la pressione a pubblicare ha aumentato la domanda di spazio disponibile per ospitare i suddetti articoli. Questo ha causato il moltiplicarsi delle riviste “internazionali” a mio giudizio non sempre necessarie (se non per aiutare le carriere dei ricercatori).

Ma se gli autori hanno bisogno, per essere pubblicati, che ci sia spazio sufficiente (cioè riviste), è pur vero che le riviste hanno bisogno di autori disponibili a pubblicare sotto la loro testata, ed attorno alle riviste girano un sacco di soldi. Solo nel campo biomedico/scienze della vita ci sono oltre 10.000 riviste indicizzate (quelle che chiamano, per brevità, internazionali). Meno del 4% ha un impact factor (IF) maggiore o uguale a 4. Per intenderci le riviste considerate top hanno un IF sopra 20, le “buone” circa 10 e con 4 vieni considerata una rivista media. Diecimila riviste che pubblicano una media di 20 articoli a numero, con una media – a ribasso- di 6 numeri all’anno fanno 1.200.000 articoli pubblicati ogni anno. Ogni anno si farebbero 1.200.000 ricerche originali che vale la pena di divulgare. Veramente?

I “trucchi” per moltiplicare una pubblicazione sono vari. Il più pulito è il “salami science” [dall’analogia con l’ affettare un salame per farne molte fette]: prendi una ricerca con un unico obiettivo, poi spezzettala e pubblica, ad esempio, un articolo con i risultati ottenuti solo sui pazienti maschi, uno solo sulle femmine, uno su maschi e femmine insieme, uno solo sugli effetti di uno degli agenti testati e uno sugli effetti a lungo termine. E magicamente da uno, massimo 2 articoli, eccone 5 o 6. Ne riuscirai a piazzare uno su una rivista decente, e poi via via abbasserai le tue pretese autoriali fino al “Bollettino del Vomero” (la rivista del tuo vicino di stanza, che pure lui c’ha bisogno di articoli per tenere in piedi la sua rivistina e quindi non gli fa schifo niente). Questo, sia chiaro, succede in tutto il Pianeta.


Come guadagnano le riviste? I buoni e i cattivi (forse)
Le riviste sono essenzialmente di due tipi:
-     Subscribers pay, cioè quelle classiche a cui per accedere ai contenuti devi pagare un abbonamento
-      Authors pay, in cui paghi per essere pubblicato ed il contenuto è accessibile online gratis

Entrambi i modelli hanno in comune il sistema di valutazione esterna degli articoli (peer review).

Il modello subscribers pay, quello classico, la rivista ti dà l’infrastruttura per il peer review, l’impaginazione, la stampa e la distribuzione, gli autori “regalano” il loro contenuto (e cedono i diritti d’autore) e le istituzioni (o i singoli) pagano abbonamenti per l’accesso alle riviste. Questo sistema è in mano essenzialmente a 4 multinazionali (cito in ordine di cinismo Elsevier, Wiley Blackwell e, a pari merito, Wolters Kluver e Springer) più l’autorevolissimo Nature Publishing Group (sempre multinazionale ma più focalizzata). Queste quattro iene hanno credo oltre l’80% del mercato e ricattano biblioteche e sottoscrittori con aumenti annuali che superano a volte il 10%. La sintesi è: se vuoi leggere paga, se no cazzi tuoi (vale a dire bloccare l’accesso alla letteratura scientifica). 

Brutti bastardi direte voi, e dico pure io.

Se le case editrici tradizionali sono senza dubbio i cattivi, l’altro modello (authors pay) sembra invece quello dei buoni, infatti garantiscono l’accesso gratuito agli articoli online e fanno pagare gli autori. I Buoni, qualcuno sì, altri meno. Il primo problema sono i costi, altissimi, per gli autori. In media 1300-1500 dollari ad articolo, più i costi per figure a colori ed eventualmente reprints (estratti dell’articolo stampato, perché, come ricordava la Cappelli l’elettronico ai concorsi non vale).

Authors pay - Effetti collaterali
L’effetto collaterale più immediato è che possono permettersi pubblicare open access solo autori finanziati, ad esempio da case farmaceutiche, oppure bisogna sottrarre fondi alla ricerca per pagarsi la pubblicazione, se non tirarli fuori di tasca propria (come per gli editori a pagamento di cui si discute in Italia).

L’altro effetto è che se nelle riviste tradizionali i “clienti” (quelli che pagano) sono i lettori, che hanno interesse a pagare per contenuti di buona qualità, nel modello authors pay i clienti sono gli autori, così:
  1. Le riviste hanno interesse a pubblicare un alto numero di articoli (aiutati anche dall’assenza di limiti fisici, grazie al fatto che pubblicano solo online)
  2. Hanno interesse a tenersi “buoni” gli autori a mio avviso a scapito della selezione.
  3. Tenderanno ad allargare le maglie dei criteri di valutazione, e, alla fin fine, ad accettare buona parte degli articoli ricevuti.
Nella mia esperienza non è mai capitato che un articolo, rigettato da riviste tradizionali, fosse poi rifiutato da riviste open access. Al massimo era l’autore a rinunciare per via dei costi. 

C'è open access e open access
www.plos.org

Non tutti i nuovi editori open access sono uguali. Il gruppo non profit PLoS o riviste di autorevoli società scientifiche come l’American Academy of Pediatrics hanno fatto convintamente una scelta open access. 

Ma vi invito a girare per il web e vedere la pletora di riviste e rivistucole open access. Divertitevi a spulciare la lista di titoli pubblicati, ad esempio, dal più grande editore open access for profit - BioMedCentral.

Molti dei titoli sono esilaranti, ed è incredibile che si trovi tanto materiale originale da riempire queste, più le altre, riviste.

Alcuni editori si sono persino inventati un sistema multilivello (come i detersivi): se porti 10 amici che pagano per pubblicare ti facciamo responsabile di una sezione (che comunque fa curriculum) e se poi questi amici portano altri 10 amici per un paio di anni ti diamo una rivista tutta per te. Il tutto sempre a 1500 dollari ad articolo.

E se le riviste fossero troppe? Se ci volesse più selezione?* 
Ora, l’obiezione più comune al mio ragionamento è che il sistema blocca la circolazione di idee “eretiche”, mentre con la moltiplicazione delle riviste queste idee hanno più possibilità di circolare (e di essere lette). Questo potrebbe in parte essere vero, data la naturale resistenza al nuovo. Ma non è necessariamente così, anzi. Pensiamo allo scivolone fatto da Science per rincorrere la novità quando ha pubblicato gli articoli (rivelatisi falsi) di Hwang sulle cellule staminali. 

A mio avviso il “controllo” su quanto viene pubblicato ha un ruolo fondamentale nell’assicurare la divulgazione di contenuti il più possibile affidabili, e per bloccare la circolazione di articoli fraudolenti. Pensiamo ai casi di plagio (articoli copiati pari pari): solo io, nel mio piccolo, ne ho toccati con mano sei. O i casi di articoli semi-falsi, a cui gli autori non esitano a fare aggiustamenti per renderli accettabili (ricordo un caso di bambini sottoposti a procedura invasiva, che in una versione – rifiutata da una rivista- erano vivi e poi - in una versione successiva per un’altra rivista – erano diventati bambini morti). Se non ci fosse stato un controllo editoriale sarebbero stati pubblicati, e forse lo sono stati, da qualche parte.

*Parlando dell'industria editoriale in genere, Loredana Lipperini parlava di bolla dell'editoria e proponeva di ridurre la quantità a favore della qualità.