sabato 25 agosto 2012

Fenomenologia dei balli di gruppo, ovvero L’attacco del Pulcino Pio alla democrazia


Il mio snobismo radical chic mi ha finora preservato dalla consapevolezza dell’esistenza del fenomeno dei balli di gruppo, fenomeno dilagante e di massa. L’estate 2012 mi ha consentito di colmare questa lacuna, complici 3 fattori: 1) una settimana al mare *, 2) l’acquisita indipendenza di Ruben, il figlio 9enne di un amico, 3) l’apertura di una “scuola di ballo” nel paese vicino al paesello in cui trascorro le vacanze. Questi fattori, apparentemente slegati tra loro, sono collegati dalla presenza, in ogni momento di socialità, dei cosiddetti balli di gruppo. Ho visto bambine e bambini, ragazze e ragazzi, donne e uomini, senza distinzione di censo e di classe, accorrere alle prime note ad intrupparsi e a ripetere ossessivamente i passi di questi balli, con o senza la guida dell’”animatore”. La mattina in spiaggia, il pomeriggio (le prove, mi hanno spiegato) fino alla sera, con una scansione definita dei tempi della giornata di “vacanza”.
Si tratta in sostanza di una serie di canzoni, la maggior parte create ad hoc, con ritmi molto semplici, spesso latineggianti, che vengono “ballati” con una serie di passi codificati altrettanto semplici, in modo che chiunque sia in grado di eseguirli.


Lo schema è quasi sempre lo stesso. I ballerini sono tutti in fila e i passi vengono ripetuti nelle quattro direzioni (di fronte, a destra, di spalle, a sinistra e ritorno) intervallati da qualche elemento come un clap o un saltino o mossetta.


È ragionevole quantificare il fenomeno in centinaia di migliaia di vacanzieri che ogni sera d’estate eseguono questi passi, considerato che ormai questi balli sono diventati l’unico intrattenimento delle serate nei luoghi turistici, siano esse sagre di paese o villaggi vacanza. Sacerdoti di questi riti sono gli animatori.  L’animatore è il depositario, tramite appositi corsi, delle coreografie e ha il compito di insegnare ed incitare il pubblico a compiere i movimenti secondo la prevista liturgia. Chi sbaglia viene incitato (redarguito, v secondo 18 del video precedente).


Ho appreso che ogni anno un nuovo “ballo”, detto tormentone, si aggiunge ai precedenti. Quello di quest anno è a mio giudizio particolarmente insidioso. Primo in classifica nei download di iTunes, il Pulcino Pio ha invaso le menti e le orecchie del nostro Paese. Questo brano ha il “merito” di essersi imposto pur essendo musicalmente più brutto, se possibile, degli altri ed anche onestamente fastidioso.


Quello che colpisce, di nuovo, è l’eterogeneità del pubblico e l’estensione del fenomeno. Colpisce inoltre come tutti questi movimenti siano caratterizzati dall’assenza di qualsiasi relazione tra i “ballerini” come anche qualsiasi elemento di variazione individuale. L’importante e fare bene. Certamente la semplicità dei movimenti ha una funzione motivante. Indubbiamente la ripetizione -sera dopo sera- ha una funzione consolatoria (v Freud, 1929) un rito evocativo. La spinta alla consolazione è superiore al piacere estetico e alle pulsioni individuali. Essere insieme agli altri, uguali, con qualcuno guidati da un entità normante. Tutto molto lontano dalle danze liberatorie degli anni ’70, ma anche dall’edonismo individualista degli anni ’80.


Il Pulcino Pio, nella sua capacità di coinvolgere grandi masse sembra assomigliare piuttosto a una parata e si colloca così un passo prima ad altri fenomeni di massa che abbiamo già visto.


* dove ho scoperto che pure agli ex-frikkettoni ex-radical chic ex-new age piace a fare i balli di gruppo.

Approfondimento
Altri due balli, che mi auguro essere un fenomeno esclusivamente meridionale, e che meriterebbero un trattato a parte.

La casalinga

La zitella

giovedì 9 agosto 2012

Racconti erotici per ragazze sole o male accompagnate [recensione with love]



Racconti erotici per ragazze sole o male accompagnate” di Slavina è un romanzo bello, di quelli che quando lo leggi dopo sei felice per almeno una settimana e guardi tutto con occhi un po’ diversi.

E’ un romanzo di formazione, di quelli da far leggere a tutte le ragazze (e ai ragazzi) perché c’è bisogno di qualcuna che ti racconti che il corpo te lo puoi vivere e rivendicare così com’è e non è quella roba patinata che vedi in tv. 

Perché di sesso in giro si parla tanto (e male), sappiamo tutto delle serate “burlesque” di un vecchio potente, ma nessuno ti dice che il bacio di un’amica può essere molto più dolce e caldo di quello di un uomo che è incapace di pensare ad altri che a sé.

Nessuno ti racconta di quando ti viene da ridere mentre fai l’amore, perché a volte ci prendiamo talmente sul serio da essere ridicoli. Nessuno dice dell’imbarazzo che proviamo quando scopriamo che ci siamo avvicinate troppo a un corpo che non ci piace perché ha i peli sulla schiena, ma con la camicia non ce ne eravamo accorte.

È un libro che fa bene anche ai maschi, a cui nessuno ha mai fatto l’elogio della sveltina o ha detto che alcune parti del corpo non sono templi di virilità sacri e inviolabili (e dubito che ne parlino tra loro).

Slavina racconta questo e molto altro. E racconta anche di quella perversione, la più perversa di tutte, quella perversione che ti fa rivendicare diritti e che fa sì che, in certi momenti, “già ci vogliamo un po’ bene”, anche se non ci conosciamo.

E forse la quarta di copertina del libro non ha completamente ragione. Non è fare l’amore (espressione troppo codificata) ad essere un atto rivoluzionario. Rivoluzionario è essere libere e non avere paura di conoscere i corpi, il proprio e quello delle altre/i, rivoluzionaria è la ricerca del piacere.


Racconti erotici per ragazze sole o male accompagnate
Giulio Perrone Editore, Collana Le Nuove Onde
100 e poche pagine, 10 euro

Se non avete cliccato nessuno dei link sopra, il blog di Slavina è http://malapecora.noblogs.org/ 
Slavina è anche su twitter @santa_slavina

martedì 3 aprile 2012

I post che avrei voluto scrivere sull'affaire neutrini



(A dimostrazione che i canali di news ufficiali non sono più l’unica e primaria fonte di informazione) apprendo, da un canale non convenzionale, delle dimissioni di Antonio Ereditato da Coordinatore dell’esperimento Opera (quello  dei neutrini più veloci della luce,ndr).

L’evento, oltre all’ennesima botta di ilarità, scatena in me il rimpianto per i tanti post che da settembre 2011 avrei voluto scrivere sull’affaire neutrini e che non ho scritto per pigrizia o perché, una volta strutturati, ho ritenuto che avessero perso la loro carica di attualità (sono pigra e anche lenta).

Ma la storia dei neutrini sembra non esaurirsi secondo il normale ciclo di vita delle notizie regalando anche un po’ di visibilità al nostro (scarsamente considerato) giornalismo scientifico. E per non perdere anche quest'occasione, riassumo qui il contenuto di quei post che avrei voluto scrivere ma che non vedranno mai la luce.

Post #1 Titolo da definire
Racconto personale di come stavo per affogarmi col dentifricio alle 8 della mattina del 22 settembre 2011 quando, ascoltando la rassegna stampa veniva letta la notizia che i neutrini avrebbero superato la velocità della luce pubblicata da Il Giornale (che sicuramente lo avete già letto ma è un tal bell'esempio di giornalismo...).
Motivi per cui mi sono affogata:
  1. Il contenuto stesso della notizia e la sua portata stra rivoluzionaria (condita dal mio scetticismo cronico, dovuto al mio approccio conservatore alla scienza)
  2. La modalità con cui veniva data la notizia. Zichichi (non il CERN o qualche altro titolare dell’esperimento) TELEFONA all’oscuro giornalista de Il Giornale (non Il Corriere)
Racconto dell’attesa, durata 26 ore, di sentire qualcuno un po’ più titolato esprimersi direttamente sull’esperimento (ovvero finché non lo sento da loro per me è una bufala). Attesa terminata alle 11 del 23 con l’intervista di Radio3 Scienza a Antonio Ereditato [con le informazioni che abbiamo oggi possiamo dire che in quelle 24 ore si è consumata la tribolazione del Prof Ereditato, tirato da una parte da Zichichi e dai giornali, e dall’altra dai ricercatori che avrebbero preferito fare prima le opportune verifiche].

[NOTA Un ottimo resoconto e corretto punto di vista su come è andata questa vicenda lo ha fatto ora Piero Bianucci su La Stampa]

Post #2 La repubblica dei Zennari
Post sulla qualità e le modalità di scelta dei collaboratori dei Ministri dell’allora Governo Berlusconi. Doveva avere uno stile tipo commedia dell’arte, giocando sull’assonanza tra il cognome del Responsabile della Comunicazione del Ministro Gelmini (nonché direttore generale per lo Studente, l’Integrazione, la Partecipazione e la Comunicazione del MIUR nonchè quello del comunicato sul tunnel) e lo Zanni, il personaggio della commedia dell’arte  povero e perennemente affamato. Quello che per la sua fame finisce col mangiarsi il mondo intero.  E su come i Zennari (meschine maschere dai capelli lunghetti, il volto lampadato e la pashmina di cachemire) fossero entrati in molte posizioni decisionali in questo paese, e di come chi decide è peggio di chi le subisce quelle decisioni.

Per scrivere questo post bisognava fare un po’ di ricerca sulla commedia dell’arte, trovare le maschere giuste. Certo avrei avuto un sacco di tempo per scriverlo,da fine settembre 2011 fino al 13 gennaio 2012 quando il nuovo ministro della ricerca ha gentilmente chiesto a Zennaro di togliere il disturbo.  Ma vi ho detto sono pigra, e 3 mesi non mi sono bastati.

Post #3 #iotifoneutrino
Storify sulle reazioni, scomposte, della twittosfera, e non solo, italiana alla notizia della scoperta dell’errore di misurazione che confermava che in effetti i neutrini non vanno più veloci della luce.
Avrei aperto con la trita citazione di Popper “La scienza è il metodo della sua falsificazione”. Avrei mostrato le reazioni di giubilo e sberleffo degli utenti twitter, in continuità con la comunicazione che ne aveva fatto il Ministro Gelmini che pareva che tra la luce e i neutrini ci fosse una gara. 

Titoli come 
“La supremazia dei neutrini sulla luce, è in bilico.”

O twit (più o meno precisi, più o meno intelligenti) [mi scuso per la bassa qualità delle immagini]

 
 

Ne avrei discusso l’assurdità nel contesto scientifico dove è normalissimo formulare un’ipotesi o fare un’osservazione e poi falsificarla empiricamente.

Avrei collegato queste reazioni da tifoseria (come se il neutrino fosse rimasto l’ultimo baluardo da abbattere del fu governo Berlusconi) rivelassero la scarsissima cultura scientifica dei twittanti, e avrei criticato l’approccio crociano e gentiliano al sapere che hanno condannato il nostro paese a tifare anche sulla velocità dei neutrini.


Così saremmo tornati alle dimissioni di Antonio Ereditato. Colpevole, non di aver sbagliato la misurazione, quanto di aver accettato prima di seguire Zichichi e poi di essersi crogiolato nella parte della science star, tanto da rilanciare e fare ai media dichiarazioni tipo:  c’è la conferma ufficiale” quando tutto il mondo era sempre più perplesso. Ma, sia chiaro, la sua colpa non è nell’errore di misurazione.

E qui si introduce il tema della tendenza, con sempre più seguaci in Italia, a vedere la ricerca anche in termini di produttività e ci starebbe un altro post, che forse scriverò, sui rischi e benefici dei criteri di valutazione oggettivi della ricerca che sono in discussione all’ANVUR.

martedì 13 marzo 2012

Duelli accademici, occupabilità, ingegneri e umanisti


Niente immagine iniziale, ma se arrivate in fondo c'è un po' di svago.  
[Chiariamo la mia idea sulla scelta dell'università: se una mia ipotetica figlia (o figlio) scegliesse di iscriversi, che so, a Lingue (in Italia) la/lo caccerei di casa.  Se scegliesse scienze della comunicazione, in punizione per 3 settimane! Filosofia e storia le accetterei. Legge, geologia e scienze naturali no (a meno di una fortissima manifesta tensione verso le materie). Ma mai e poi mai farei la scelta dovrebbe essere centrata solo sulla “prospettiva occupazionale”.]

Invece, in Italia, ogni anno, quando esce il rapporto Almalaurea sull’occupabilità dei giovani laureati, ecco che si contrappongono due opposte fazioni - da un lato i progressisti tecnocrati (di solito  ingegneri o economisti, nessun matematico fateci caso), dall’altra gli umanisti, difensori delle belle lettere e del libero pensiero.  E ogni anno parte la lamentatio sui risultati deludenti della nostra università, ma si finisce sempre per dare la colpa agli studenti e alla “popolazione” (sic) colpevoli di “investire nel tipo di capitale umano meno vendibile sul mercato del lavoro.”(Marco Persico su la voce.info). Vale a dire, statistiche di Singapore alla mano, troppi filosofi (in realtà troppi avvocati, ma non si dice) e pochi ingegneri.

Quest anno al tradizionale scontro si sono aggiunti almeno due ulteriori motivi di dibattito: la proposta di usare l’inglese come lingua di insegnamento in alcuni corsi universitari e i nuovi criteri di valutazione della ricerca (che poi si traduce in quanti soldi dare a chi).
Su questi due temi si concentra il commento di Tullio Gregory sul Corriere del  7 marzo che si scaglia contro “gli alfieri della modernizzazione e dell'internazionalizzazione esclusivamente legate all'uso dell'inglese”.  Il sottotesto  di questo commento è: noi umanisti ci stiamo fottendo dalla paura perché è chiaro che volete tagliarci fuori. Noi, che abbiamo fatto un’intera carriera con un libro a concorso (pagandocelo coi nostri fondi di ricerca) e che non ci siamo mai voluti confrontare con la ricerca fuori dai nostri confini , ora stiamo in allerta e pronti a farci scudo del Bel Paese e della Lingua di Dante (che poi magari non è neanche il caso del Prof Gregory).

A questo accorato appello all’autarchia culturale si potrebbe rispondere che la comunità scientifica per sua natura non può chiudersi in dei confini nazionali. Oppure si potrebbe avvisare il Prof Gregory che, a differenza di qualche generazione fa, i giovani nativi digitali sono naturalmente esposti a una pluralità di stimoli anche linguistici e che trovano del tutto naturale, spesso, leggere un articolo in inglese o in francese. E far presente che, in ogni caso, la valutazione della ricerca secondo parametri (abbastanza) oggettivi, benché imperfetti, sia meglio del nulla assoluto che vige oggi (cosa che mi ripete sempre un mio amico professore ordinario di filosofia quando mi metto a dimostrargli la debolezza degli indici bibliometrici). 

E invece no, a rispondere, sempre sulle pagine del Corriere, sono i tecnocrati, nella persona del Rettore del Politecnico di Milano, che scende da Marte e ci fa sapere che, secondo lui, se usassimo l’inglese nei corsi universitari: a) aumenterebbe la percentuale degli studenti stranieri che vengono a studiare in Italia, e b) si svilupperebbero altre competenze tra cui la capacità di operare in un ambiente “globale”.  Mi soffermo solo sul punto a) di cui ho esperienza diretta. Se anche gli studenti stranieri (che poi non da USA o Finlandia, ma Cina, India etc) vengono in Italia, alla prima occasione scappano all’estero. Non  perché in laboratorio non si parli inglese (che poi si parla) ma a causa, ad esempio, delle disastrose leggi sull'mmigrazione che li costringono ogni anno a perdere giorni di studio per andare a dare le loro impronte digitali, oppure per i bassi salari e le scarse prospettive occupazionali in questo paese, in particolare nel campo della ricerca. Che poi forse un dottorando di italianistica a trovarsi in un dipartimento a fare corsi in inglese pure ci rimane male.

L’intero dibattito sconta il provincialismo dell’accademia italiana. Se da una parte abbiamo una tradizione umanistica, legata a una visione idealistica e crociana della cultura dove le lettere e la poesia avrebbero un primato “qualitativo” rispetto alle scienze “dure” come la matematica e la fisica, che sarebbero mero strumento quando non semplice esercizio. Dall’altra ci sono gli accademici che si occupano di “scienza” che, forse per rivalsa, criticano non tanto il metodo di insegnamento e di indirizzo della formazione universitaria, quanto piuttosto il merito stesso di alcune discipline usando sempre l’argomento della scarsa occupabilità (“una cosa che mi ha sempre colpito dell'Italia è quante persone studiano discipline come Filosofia, che hanno scarsi sbocchi lavorativi” scrive Persico nell'articolo citato sopra). [che poi come la metterebbero col numero chiuso? ma questa è un'altra storia].

Così alla fine tutto si riduce nell’attacco o strenua difesa del proprio orticello e nulla si dice sulla realtà universitaria. Sullo scempio delle lauree triennali (esamifici) e la frode della maggior parte dei programmi delle lauree specialistiche (o come diavolo si chiamano ora). Sull’accorpamento dei dipartimenti, che costringono a scegliere tra un PRIN in sociologia del lavoro o uno di linguistica. Sulla carenza di fondi per reali scambi e programmi di internazionalizzazione. Sul fatto che a causa dei tagli e dei continui aumenti le università stanno rinunciando gli abbonamenti alle riviste (quelle internazionali). Per non parlare delle condizioni ricattatorie del mercato del lavoro immateriale (sì, i ricercatori pubblici e privati sono lavoratori immateriali). No, la colpa è degli studenti che scelgono di fare scienze della comunicazione.


Howard Wolowitz è un ingegnere.

[disclaimer: l'autrice non ha nulla contro gli ingegneri nè quelli che hanno studiato lingue o scienze dalla comunicazione]

martedì 28 febbraio 2012

Io non mi lamento, ma non chiamatemi imprenditore

Correva l’anno 1985, un’amichetta con le idee chiare fa: ”da grande voglio guadagnare 3 milioni (di lire, ndr) al mese!”. A 10 anni mi parve una buona idea, un giusto traguardo. Oggi, superato il primo decennio degli anni zero, sono lieta di annunciare che ho raggiunto l’obiettivo.

Chiariamoci, sono una lavoratrice freelance e non mi lamento, me la passo molto meglio di tanti altri. Per qualche motivo la gente è ancora disposta a pagarmi (quasi) quanto gli chiedo. Finchè dura...

No, non ho una partita iva. Divido con un’amica una micro società... diciamo una partita iva per due. Ma non mi lamento, faccio un lavoro che, spesso, mi piace. E poi non sopporterei di lavorare sotto padrone.

Certo, che non mi lamento. In vacanza ci vado zaino in spalla, oppure unisco le vacanze a qualche viaggio di lavoro. Già, non ho un’auto, non me la posso permettere. In realtà non ho neanche una casa. Sono 10 anni che vivo in affitto (temporaneo e al nero).

Ma non mi lamento. No, non mi lamento, ma ho paura. Non la paura che le mie entrate non crescano o che il “business” non si espanda.

Ho paura di ammalarmi, se mi ammalo non avrò accesso ad assicurazioni o protezioni di nessun genere. E se non lavoro non guadagno. Fatti un’assicurazione, dici? Certo! Peccato che le agevolazioni e le coperture assicurative a cifre abbordabili esistano solo per i lavoratori dipendenti.

Ho paura di fare un figlio/a, o che lo faccia la mia amica, perché nessuno ci pagherà per il lavoro perso durante la maternità (da queste parti la gravidanza è una malattia). Ma anche perché non ci sarà un ospedale disposto a farmi partorire con parto naturale, se vuoi vai in clinica (e chi paga?), e poi non ci sarà un asilo nido pubblico che la/lo accoglierà, se sei dipendente c’hai le agevolazioni, gli assegni familiari, io no.

Ho paura per mia madre, perché stanno tagliando lo stato sociale, la sua pensione sarà ridicola, lei non ha altri sostegni, a parte me e mio fratello.

E allora, a me va bene, non mi lamento. Fa nulla se non ho una casa, figli, assicurazione e pensione. Diciamo (diciamo) che me la sono scelta io. Ma non veniteci a raccontare che questo è il futuro a cui tutti i giovani dopo di me devono aspirare, e che se non desiderano questo sono degli sfigati. E non raccontateci che l’articolo 18 e i diritti è roba dei vecchi che tolgono il futuro ai giovani. Diritto scaccia diritto non esiste. Poco ma sicuro, io non sarò più “competitiva” nel mio lavoro se tolgo qualche diritto a un altro.

Tanto non vi crediamo! Dagli anni ’70 siamo in una fase di contrazione dei salari. Lo scopo preciso era quello di contrastare l’eccessivo potere dei lavoratori verso i capitalisti. Ci avete convinto che per continuare a lavorare dovevamo rinunciare non solo all’aumento dei salari, ma al diritto di una giusta remunerazione del lavoro salariato rispetto al profitto generato. E che se no andavate a produrre in Cina, che poi ci siete andati lo stesso. Poi vi siete fatti la vostra crisi finanziaria, e venite a dire che tocca a noi aggiustare le cose. Invece siete stati voi a schiacciare la produzione industriale per fare spazio alla finanza. Ma tutte queste cose ve le spiega meglio il prof David Harvey. 




Intanto io, che io ho raggiunto il mio sogno di bambina, mi sento un’ingenua. E come dice il prof Harvey, ogni persona di buon senso oggi si unirebbe al movimento anticapitalista. E forse ci conviene seguire il suo consiglio.


Letture aggiuntive
Silvia Bencivelli, Mondo free lance
Silvia Bencivelli, Il colpevole siamo noi