Niente immagine iniziale, ma se arrivate in fondo c'è un po' di svago.
[Chiariamo la mia idea sulla scelta dell'università: se una mia ipotetica figlia (o figlio) scegliesse di iscriversi, che
so, a Lingue (in Italia) la/lo caccerei di casa. Se scegliesse
scienze della comunicazione, in punizione per 3 settimane! Filosofia e storia
le accetterei. Legge, geologia e scienze naturali no (a meno di una fortissima manifesta
tensione verso le materie). Ma mai e poi mai farei la scelta dovrebbe essere centrata solo sulla “prospettiva occupazionale”.]
Invece, in Italia, ogni anno, quando esce il rapporto Almalaurea sull’occupabilità dei
giovani laureati,
ecco che si contrappongono due opposte fazioni - da un lato i progressisti tecnocrati
(di solito ingegneri o economisti, nessun matematico fateci caso), dall’altra gli umanisti, difensori delle belle lettere e del
libero pensiero. E ogni anno parte la
lamentatio sui risultati deludenti della nostra università, ma si finisce
sempre per dare la colpa agli studenti e alla “popolazione” (sic) colpevoli di “investire
nel tipo di capitale umano meno vendibile sul mercato del lavoro.”(Marco Persico su la voce.info).
Vale a dire, statistiche di Singapore alla mano, troppi filosofi (in realtà
troppi avvocati, ma non si dice) e pochi ingegneri.
Quest anno al tradizionale scontro si sono aggiunti almeno
due ulteriori motivi di dibattito: la proposta di usare l’inglese come lingua
di insegnamento in alcuni corsi universitari e i nuovi criteri di valutazione della ricerca (che poi si traduce in quanti soldi dare a chi).
Su questi due temi si concentra il commento di Tullio
Gregory sul Corriere del 7 marzo
che si scaglia contro “gli alfieri della modernizzazione e
dell'internazionalizzazione esclusivamente legate all'uso dell'inglese”. Il sottotesto di questo commento è: noi umanisti ci stiamo fottendo
dalla paura perché è chiaro che volete tagliarci fuori. Noi, che abbiamo fatto un’intera
carriera con un libro a concorso (pagandocelo coi nostri fondi di ricerca) e
che non ci siamo mai voluti confrontare con la ricerca fuori dai nostri confini
, ora stiamo in allerta e pronti a farci scudo del Bel Paese e della Lingua di
Dante (che poi magari non è neanche il caso del Prof Gregory).
A questo accorato appello all’autarchia culturale si
potrebbe rispondere che la comunità scientifica per sua natura non può chiudersi
in dei confini nazionali. Oppure si potrebbe avvisare il Prof Gregory che, a
differenza di qualche generazione fa, i giovani nativi digitali sono naturalmente
esposti a una pluralità di stimoli anche linguistici e che trovano del tutto
naturale, spesso, leggere un articolo in inglese o in francese. E far presente
che, in ogni caso, la valutazione della ricerca secondo parametri (abbastanza)
oggettivi, benché imperfetti, sia meglio del nulla assoluto che vige oggi (cosa che
mi ripete sempre un mio amico professore ordinario di filosofia quando mi metto a
dimostrargli la debolezza degli indici bibliometrici).
E invece no, a rispondere, sempre sulle pagine del Corriere, sono i tecnocrati, nella persona
del Rettore del Politecnico di Milano, che scende da Marte e ci fa sapere che, secondo lui, se usassimo l’inglese nei corsi
universitari: a) aumenterebbe la percentuale degli studenti stranieri che
vengono a studiare in Italia, e b) si svilupperebbero altre competenze tra cui la
capacità di operare in un ambiente “globale”. Mi soffermo solo sul punto a) di cui ho
esperienza diretta. Se anche gli studenti stranieri (che poi non da USA o Finlandia,
ma Cina, India etc) vengono in Italia, alla prima occasione scappano all’estero. Non perché in laboratorio non si parli
inglese (che poi si parla) ma a causa, ad esempio, delle disastrose leggi sull'mmigrazione che li costringono ogni anno a perdere giorni di studio per andare a dare le
loro impronte digitali, oppure per i bassi salari e le scarse prospettive occupazionali
in questo paese, in particolare nel campo della ricerca. Che poi forse un
dottorando di italianistica a trovarsi in un dipartimento a fare corsi in inglese pure ci rimane male.
L’intero dibattito sconta il
provincialismo dell’accademia italiana. Se da una parte abbiamo una tradizione
umanistica, legata a una visione idealistica e crociana della cultura dove le
lettere e la poesia avrebbero un primato “qualitativo” rispetto alle scienze “dure”
come la matematica e la fisica, che sarebbero mero strumento quando non
semplice esercizio. Dall’altra ci sono gli accademici che si occupano di “scienza”
che, forse per rivalsa, criticano non tanto il metodo di
insegnamento e di indirizzo della formazione universitaria, quanto piuttosto il
merito stesso di alcune discipline usando sempre l’argomento della scarsa
occupabilità (“una cosa che mi ha sempre colpito dell'Italia è quante persone
studiano discipline come Filosofia, che hanno scarsi sbocchi lavorativi” scrive Persico nell'articolo citato sopra). [che
poi come la metterebbero col numero chiuso? ma questa è un'altra storia].
Così alla fine tutto si riduce nell’attacco o strenua difesa
del proprio orticello e nulla si dice sulla realtà universitaria. Sullo scempio
delle lauree triennali (esamifici) e la frode della maggior parte dei programmi
delle lauree specialistiche (o come diavolo si chiamano ora). Sull’accorpamento dei dipartimenti, che
costringono a scegliere tra un PRIN in sociologia del lavoro o uno di
linguistica. Sulla carenza di fondi per reali scambi e programmi di
internazionalizzazione. Sul fatto che a causa dei tagli e dei continui aumenti le
università stanno rinunciando gli abbonamenti alle riviste (quelle
internazionali). Per non parlare delle condizioni ricattatorie del mercato del lavoro
immateriale (sì, i ricercatori pubblici e privati sono lavoratori immateriali).
No, la colpa è degli studenti che scelgono di fare scienze della comunicazione.
Howard Wolowitz è un ingegnere.
[disclaimer: l'autrice non ha nulla contro gli ingegneri nè quelli che hanno studiato lingue o scienze dalla comunicazione]
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