domenica 12 ottobre 2014

La rappresentazione mediatica delle donne combattenti curde

Il testo sotto è la mia traduzione di un post di Dilar Dirik  dal sito kurdishquestion.com. Il testo mostra bene come, ancora una volta, le donne siano un campo di battaglia per la guerra, in questo caso mediatica. Il post si concentra sulla propaganda mediatica turca e iraniana, mirata a screditare le donne combattenti e sull'orientalismo paternalista dei media occidentali. A quanto scritto sotto, vorrei aggiungere anche un altro aspetto della rappresentazione mediatica delle donne combattenti, non affrontato in questo post: la tendenza voyeristica e ammiccante che c'è da parte di molti media occidentali. Nelle foto, nei servizi, si sposta continuamente l'obiettivo alla ricerca la femminilità delle combattenti. Insomma, si tenta di "normalizzarle" sullo stereotipo femminile di cura e bellezza. Per me, anche questa normalizzazione è problematica e contribuisce a negare la portata rivoluzionaria della resistenza delle donne nella società. 
Warning: il post ha un po' un tono da propaganda, più che di analisi. 

Funerale di una combattente tratta da un articolo di NBC news

Negli ultimi due anni, nel pieno della guerra civile siriana, i curdi hanno preso il controllo del Kurdistan occidentale (Rojava) e vi hanno progressivamente stabilito strutture di autogoverno. Sin dal principio le donne hanno perso parte attiva alla rivoluzione del Rojava, grazie all'attivismo civile e politico. Ma quello che ha più colpito i media mainstream occidentali è stato il ruolo paritario delle donne combattenti. Queste donne, che combattono contro il regime di Assad e contro i gruppi jihadisti, hanno spesso sottolineato come la loro sia una guerra su più fronti: per la liberazione del popolo curdo e in quanto donne. Nonostante, da decenni, la presenza di donne combattenti sia un elemento naturale in Kurdistan, il mondo sembra accorgersi solo ora del ruolo delle donne nel movimento di liberazione del Kurdistan. In particolare di recente, il movimento delle donne ha stuzzicato l'immaginario dei media mainstream in vari modi generando stupore, orientalismo paternalista fino al sessismo vero e proprio.
Molti articoli sulle donne combattenti curde sono semplicistici, misogini, orientalisti, e a dir poco paternalisti. Invece di provare a comprendere la situazione in tutta la sua complessità, gli articoli spesso si limitano a fare affermazioni sensazionalistiche per far leva sullo stupore di chi legge per il fatto che "povere donne in Medio Oriente" possano essere addirittura delle combattenti. Così, invece di riconoscere la rivoluzione culturale rappresentata dalle azioni di queste donne, in una società altrimenti patriarcale e conservatrice, molti reporter decidono di usare categorie trite.

domenica 17 agosto 2014

Turismo cannibale - un post à la Gramellini

Sono a Berlino, ci mancavo da quattro anni. Quando ci ero stata avevo apprezzato la vitalità delle persone ma avevo visto anche il rischio della speculazione selvaggia. Ovunque c’era qualcosa in costruzione. Sapevo che c’era il rischio che la città finisse col diventare un enorme centro commerciale, come è accaduto con Londra. Ecco, è successo, o meglio sta succedendo ma mi pare che il processo sia irreversibile.

Molti spazi che prima erano di cultura- se non di socialità- alternativa vengono sfrattati per lasciare spazio alla speculazione. Il caso più moto è la chiusura del Tacheles, ma lo stesso è successo al centro di cultura afro YAAM e succederà al mercatino domenicale di Meuerpark. Lasceranno tutti il posto a palazzi, centri commerciali, catene di negozi. Tutto uguale, a uso e consumo dei turisti.

Turisti nati quando il muro di Berlino già non c’era più. Che vanno a visitare le vestigia del muro a Postdammer Platz come quelli che andavano a fare il necroturismo a Cogne. Vanno e si fotografano o ci attaccano i lucchetti per promettersi amore eterno. La novità è che i turisti appiccicano una gomma masticata sul pezzo di muro, ridono si fanno fare la foto dagli amici e se ne vanno.


Non conosco le origini del rito della cicca. So che alla Casa di Giulietta (pezzotta, n.d.r.) succede la stessa cosa. Ma provo ad interpretarlo (anche se suonerà à la Gramellini, ahimè).
Si tratta di un rituale da turisti egocentrici, che vogliono lasciare un segno di se su un pezzo di storia. Una specie di cannibalizzazione, in questo caso al contrario. Non importa se si tratti del (finto) balcone di Giulietta o del simbolo di una privazione della libertà. I pezzi di cemento che erano il muro sono solo un’attrazione turistica su cui mettere le mani e farsi una foto.
Meno male che, come dice il mio compagno, quello di Postdammer Platz non è il vero simbolo del muro. E dicendo questo mi ha portato in direzione della East Side Gallery (chissà ancora per quanto).

Corollario
Quando si blatera del turismo come petrolio dell’Italia dovremmo chiederci di cosa stiamo parlando. Di città luna park dove i turisti sono solo consumatori e clienti paganti? Oppure vogliamo che il turismo sia un’occasione di crescita e di conoscenza per le persone che vengono? Certo bisogna accogliere bene i turisti, ma questo non va confuso col prenderli per mucche da mungere. Perché così facendo, il danno lo faremo a noi stessi, alle nostre città, al mare, cancellando pezzi di storia. 

venerdì 8 agosto 2014

Micromaschilismi?/ 1


Situazione

Lei: C'è sto tale che mi perseguita, ogni volta che mi vede online mi contatta. E non capisce che mi dà fastidio. Mi ha persino avvisato che sarà offline per un paio di giorni perchè parte per un viaggio.

 Lui: Fatti portare un regalo!

 Lei: Anche no! :)

Lui: Sei una femmina crudele! LOL
 
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è un comportamento micro maschilista?
Se sì, perché? Se no, perché?

domenica 27 luglio 2014

Dell'uso dei bambini palestinesi da parte di pseudo-giornalisti

Nomi e età dei bambini palestinesi uccisi da Israele (Fonte: twitter)

Il quotidiano Europa pubblica un editoriale su Gaza di Fabrizio Rondolino dal titolo “Basta con quei bambini usati contro Israele” Il sottotitolo svela immediatamente la tesi dell’autore: I media italiani sono quasi tutti totalmente subornati alla propaganda di Hamas, che sfrutta cinicamente le vittime civili”.

Ora, questa affermazione per me è ridicola visto che i media italiani, a parte il Manifesto, hanno abbracciato la religione dell’equidistanza (ci tonerà Rondolino, ma non voglio rovinare la sorpresa) e non mettono assolutamente in discussione il diritto di difesa di Israele, ma tant’è.

A me interessa piuttosto come si svolge l’argomentazione di Rondolino, come esempio di retorica del rovesciamento della realtà, facendo affermazioni (in parte) vere e poi rovesciandole nello svolgimento del testo. E si conclude (spoiler non resisto) con gravissime affermazioni sul lavoro del giornalista, che a suo dire dovrebbe rinunciare a raccontare la realtà in favore di una causa superiore.

L'editoriale ha come fulcro un'osservazione –a mio avviso corretta- e cioè che in questultimo conflitto di Israele contro la Palestina, sono circolate, grazie anche ai social network, molte immagini di bambini morti, feriti, sofferenti. Bambini palestinesi uccisi da bombardamenti israeliani.

Questo ha avuto un effetto nell’opinione pubblica: la compassione. E ha scalfito l’immagine di Israele come stato democratico e buonista. Ha scalfito il giustificazionismo.

Quindi Rondolino decide di prendersela con i bambini morti per riaffermare il “diritto di difesa di Israele” (riporto qui in corsivo il testo integrale di Rondolino).

Paragrafo 1)  In cui si sa che è brutto che i bambini muoiano, ma i bambini muoiono in tutte le guerre. Ma se una guerra è giusta, poco male. Scegliendo, tra gli altri, il felice esempio del bombardamento di Hiroshima.

Smettiamola con i bambini: i bambini in guerra muoiono come chiunque altro, perché la guerra è orrenda. Sono morti e muoiono dappertutto, i bambini: a Belgrado e in Kosovo, in Iraq e in Siria e ovunque si combatta una guerra. Ne sono morti molti anche a Dresda, sotto i bombardamenti alleati che hanno piegato Hitler, e a Hiroshima e Nagasaki, dove le atomiche americane hanno portato la pace nel Pacifico. Dunque il problema non è se muoiono i bambini, ma se è giusta la guerra.

Paragrafo 2) In cui si accetta per vera la tesi che Hamas usa la popolazione come scudi umani, ignorando completamente che la popolazione di Gaza resiste sotto assedio e sotto embargo di Israele.

I media italiani sono quasi tutti totalmente subornati alla propaganda di Hamas, che sfrutta cinicamente le vittime civili – molte delle quali sono letteralmente costrette dai terroristi a restare nelle case o a salire sui tetti – per muovere a pietà l’Occidente.

Paragrafo 3) In cui si afferma che quella di Israele è una guerra per i valori occidentali (e che se i media fanno vedere i bambini palestinesi morti non gli fanno un buon servizio). E anche questa è una solenne minchiata. Primo perché il conflitto Israelo-Palestinese ha radici storiche molto diverse, e secondo perché Israele è solo apparentemente uno stato con valori occidentali (fatevi un giro a Gerusalemme o in qualche colonia).

I nostri media ogni giorno si prestano alla pornografia della morte, ogni giorno titolano in prima pagina sui morti innocenti: così l’attenzione non è più sulle ragioni della guerra, sul terrorismo di Hamas, sull’offensiva fondamentalista islamica che da Mosul a Gaza ha come obiettivo i valori e le libertà dell’Occidente, ma sui bambini, decontestualizzati e angelicati nel pantheon delle emozioni mediatiche: e chi non inorridisce di fronte a un bimbo morto ammazzato?

Paragrafo 4) In cui non potendo fare un’affermazione palesemente falsa, e cioè che i media italiani sono anti-Israeliani, usa la supposizione, la deduzione illogica: “I nostri media non osano scrivere che Israele uccide senza scrupoli, ma probabilmente lo pensano e di sicuro vogliono farcelo credere.”

I nostri media non osano scrivere che Israele uccide senza scrupoli, ma probabilmente lo pensano e di sicuro vogliono farcelo credere. Giocano con i sentimenti e ricattano ogni giorno i lettori: da una parte ci sono i bambini morti, e dall’altra c’è – senza dirlo mai esplicitamente, per paura e vigliaccheria – un esercito spietato, un governo spietato, uno Stato e un popolo spietati.

Paragrafo 5) In cui si rassicurano i lettori affermando che “Israele non è spietato” e si riafferma il diritto alla difesa di Israele (“non è neanche guerrafondaio”, dice subito dopo, strano per un paese con 3 anni di servizio militare obbligatorio, la bomba atomica, e un’altissima spesa militare, ma lasciamo perdere).

Israele non è spietato. Non è neanche guerrafondaio: non lo è mai stato. Tutte le guerre che Israele ha dovuto combattere dal 15 maggio 1948, cioè dal giorno della sua nascita, sono state e sono guerre di difesa. Ogni volta che Israele è stato costretto a prendere le armi e a versare il sangue dei suoi figli, è perché ha subito un attacco mortale. Questa guerra non è diversa: Hamas, attraverso i tunnel e con i razzi, ha colpito e colpisce Israele, e Israele non ha altra scelta che difendersi.

A partire dal paragrafo 6 l’argomentazione inizia a trasbordare e diventa delirio. Vediamo.

Paragrafo 6) In cui si fa prendere un po’la mano e dice sciocchezze come “nascondere i razzi nelle scuole e negli ospedali è un crimine contro l’umanità” eppure, come ribadito dall’ONU, il crimine (di guerra, non contro l’umanità) è bombardare gli ospedali, e lo ha fatto Israele . E l’ONU ne ha chiesto la condanna. E poi parla di fantomatici tunnel “con aria condizionata” che francamente non ha mai visto nessuno. Anche se è vero che i tunnel esistono, moltissimi servono anche per far passare qualche bene di prima necessità, perché, Gaza è sotto embargo. Tra i materiali pericolosi che non possono entrare legalmente ci sono i materiali da costruzione.

Di tutto questo ai media italiani importa molto poco. La guerra è uno spettacolo, e più grande è l’orrore più il pubblico accorre. I bambini morti commuovono e lo sdegno assolve la coscienza: e che importa se Hamas ha scritto nel suo statuto che Israele va cancellato dalla carta geografica, o che nascondere i razzi nelle scuole e negli ospedali è un crimine contro l’umanità, o che i tunnel con aria condizionata costruiti per ammazzare i cittadini israeliani potrebbero accogliere i civili palestinesi durante i bombardamenti e ridurre a zero le vittime.

Paragrafo 7) In cui prima afferma un’identità tra ebrei e stato di Israele (affermazionediscutibile e discussa da storici israeliani e non) e poi dice che questo alimenta l’antisemitismo. Ora francamente questo passaggio è talmente assurdo (si è antisemiti se non si appoggiano le politiche di Israele) che non saprei neanche cosa argomentare, se non che ci sono moltissimi ebrei nel mondo che non la pensano come Rondolino. Che poi l’antisemitismo sia un problema storico in Europa lo andrei a discutere con chi fomenta razzismi e fascismi.

Così monta nell’opinione pubblica un’ondata molto pericolosa, che comincia col distinguere dottamente fra gli ebrei – una specie di idea platonica da commemorare compunti nel Giorno della Memoria – e il governo di Israele, poi s’allarga allo Stato ebraico nel suo insieme, la cui stessa esistenza è considerata un’anomalia, e infine sfocia nell’antisemitismo esplicito, nell’assalto ad una sinagoga a Parigi o nelle botte ai calciatori del Maccabi Haifa in Austria. Di questo l’informazione porta una responsabilità pesante, di cui prima o poi dovrà rendere conto.

Paragrafo 8) In cui l’autore ha un sussulto di onestà e si rende conto della panzana scritta nel paragrafo precedente “Criticare Israele non è antisemitismo: lo fanno molti ebrei e lo fanno molti israeliani” ma non resiste e aggiunge una parentesi generica e ammiccante “(non altrettanto si può dire dell’altra parte)”. E con un salto carpiato si contraddice e ripete che mostrando le immagini dei morti a Gaza si alimenterebbero sentimenti antiebraici. Il paragrafo si conclude affermando che Israele è la vittima di questa guerra. Come e perché non è dato saperlo.

Criticare Israele non è antisemitismo: lo fanno molti ebrei e lo fanno molti israeliani (non altrettanto si può dire dell’altra parte). Ma dipingere giorno dopo giorno Israele come un mostro, speculando sui sentimenti più elementari dell’opinione pubblica e rifiutandosi di illustrarne le molte ragioni, produce nel tempo un diffuso e pericoloso sentimento antiebraico, tanto più intollerabile quanto più è evidente che Israele, in questa come in tutte le altre guerre, è la vittima.

Paragrafo 9) In cui Israele ha diritto di esistere e l’unico modo che ha è di annientare Hamas. L’equidistanza (dei media, cioè documentare il massacro di Hamas) aiuta Hamas, quindi forse dovrebbero tacere? Nascondere le notizie?
Ma mi sono stancata e lo lascio commentare a voi:

Israele ha il diritto di continuare a combattere fino a che l’ultimo tunnel e l’ultimo razzo di Gaza non saranno annientati (o fino a quando Hamas non annuncerà il disarmo unilaterale), perché ha diritto ad esistere. Che altro dovrebbe fare, che altro potrebbe fare Israele per fermare la guerra? L’unica opzione che il terrorismo palestinese gli offre è scomparire. L’unica scelta che ha è difendersi. Chi non comprende a fondo questo punto, chi specula sui morti innocenti e si nasconde, naturalmente in nome della “pace”, dietro un’ammiccante equidistanza, fa la parte dell’utile idiota di Hamas. È una scelta legittima, ma bisogna saperlo e assumersene la responsabilità.

Outro
Per una storia del conflitto Israelo-Palestinese vi rimanderei a fonti autorevoli e complete, ma io non ne ho trovate online, Quindi qualsiasi suggerimento è gradito.

Per una testimonianza (da nulla) dell’apartheid e del colonialismo vi rimando al racconto del mio recente viaggio di lavoro in Israele.

#FreePalestine  #StopIsraeliApartheid

sabato 14 giugno 2014

Israele danza su terra rubata





Sono stata a Gerusalemme, per lavoro, a un convegno medico organizzato da israeliani.

Avevo idea della situazione in Palestina ma quello che ho visto, e non ho visto nulla, racconta della colonizzazione israeliana e dell’apartheid. Ho visto il popolo dei colonizzatori barricato dietro chilometri di muro e filo spinato, tonnellate di cemento e centinaia di telecamere.

La sensazione la hai appena arrivati in aeroporto, dove al controllo passaporti ti fanno varie domande, diverse per ciascuno. Dove vai, conosci qualcuno qui? Ma a questo eravamo preparati.

Poi dal bus che da Tel Aviv ci porta a Gerusalemme iniziamo a vedere spuntare un po’ ovunque filo spinato, chilometri di filo spinato, e poi un muro un lungo spesso muro, e lì capisci e l’autista conferma: sì, lì dietro ci sono i palestinesi.

Ma l’apartheid in Israele, come dovunque, si fa anche con l’egemonia economica, e con il continuo furto di territorio. Al di qua del muro è un continuo costruire. Case case case per i coloni. Per soffocare quello che è al di là del muro.

E l’apartheid è anche linguistica. Pochissime le scritte anche in arabo, solo in Hebrew con la traduzioni in inglese. Se non sapessi che non è così, penserei che anche la città vecchia è tutta israeliana.

Con la scusa della sicurezza, Israele esercita un controllo e una pressione costante anche sui suoi abitanti. Metaldetector, centinaia, letteralmente, di telecamere. Mitra e giubbotti antiproiettile, spike per fermare attacchi di auto praticamente fuori ad ogni edificio. E’ perfettamente “normale” vedere giovani militari che salgono prendono l’autobus imbracciando il loro mitra. Del resto  fanno 3 anni di servizio militare obbligatorio (le ragazze solo 2) quindi posso solo immaginare il tipo di pressione psicologica a cui sono sottoposti.

In qualunque momento puoi trovarti di fronte a un check point e a un gentile ma fermo interrogatorio: che ci fai in Israele?  Come si chiama il tuo Hotel? Come si chiama il tassista che ti ha portato qui? Te lo chiedo perché potresti avere una bomba…

E infine, ad ogni angolo, la celebrazione di quella che loro chiamano la guerra di indipendenza, e che in realtà è la guerra del 48 in cui Israele si impose sui territori palestinesi, inclusa Jaffa che era un municipio palestinese e che fu poi inglobata in Tel Aviv.

E su questa società chiusa e sulla paura e sull'orgoglio che si fonda la colonizzazione.  Sul sentirsi assediati, quando invece è si è assedianti. Un senso di superiorità che si traduce in vere e proprie leggi razziali contro gli arabi, i cui figli non possono avere cittadinanza israeliana se hanno una moglie o un marito palestinese, o che devono avere un timbro speciale sul passaporto se sono figli o coniugi di un palestinese, indipendentemente dalla loro nazionalità.


E Israele è considerata una democrazia? Se democrazia è ridotta al solo fare le elezioni, o piuttosto è democrazia il potere e lo stile di vita occidentale? Potete pure continuare a danzare, danzerete su terra rubata.
Il passaggio al metal detector per entrare al centro congressi

martedì 15 aprile 2014

"Adding injury to insult" vs "An injury to one is an injury to all"?

Sul blog dove è postato pare che i commenti possano essere solo dell'autore del post, e invece io voglio commentare. Così riporto sotto una riflessione e un commento sui movimenti e in particolare la manifestazione del 12A, e i giorni seguenti. Il terzo pezzo è il mio commento. E io sono completamente d'accordo in parte con entrambi. Nota: Qui i commenti sono aperti.

Adding injury to insult 

di @ginosansonetto
Recentemente mi è capitato di vedere su internet l'intervento di Rosi Braidotti ad un seminario, (qui l'indirizzo della prima parte del video http://vimeo.com/91305642) intitolato "Soggettività nomadi e vie di fuga postumane". Ad un certo punto Braidotti dice una cosa molto interessante, e cioè che tutti i grandi teorici maschi del comunismo, da Zizek a Badiou etc, hanno derubricato l'intero pensiero femminista a due note a margine dei loro discorsi, lamentandosi poi per la mancanza di pratiche alternative nei movimenti, quando questa rimozione è la causa della mancanza di esempi positivi cui attingere. "Adding injury to insult". Braidotti ragiona sull'importanza dell'immaginazione e della costituzione di nuovi immaginari e sulla salvaguardia della storia delle pratiche femministe, pratiche situate, non utopistiche e non slegate dalla concretezza dei rapporti tra persone. Questo discorso mi è venuto in mente riguardo le polemiche successive al corteo del 12 aprile a Roma. Sempre le stesse discussioni, ormai da anni, sull'efficacia di alcune pratiche nelle manifestazioni, sul rituale dell'immaginario bellicista e sull'idea che lo scontro militare (seppur richiamato per allusione simbolica) possa condurre a dei risultati pratici i movimenti. Mi chiedo, pur nella dovuta solidarietà ai compagni arrestati e picchiati in piazza, che senso possano avere oggi tutte le simulazioni di una potenza militare che non si possiede, oltre che, naturalmente, che senso possa avere lanciare parole d'ordine come quella dell'assedio ai palazzi di un potere che si individua nei palazzi romani dei ministeri vuoti di sabato pomeriggio. Credo che la risposta a questi interrogativi sia appunto nel cercare itinerari e percorsi di cui si è volutamente insabbiata la memoria e farla finita una volta per tutte con gli avanguardismi di un immaginario, quello bellicoso del leninismo degli anni 70, che avrà avuto pure la sua legittimità ma ora riproporlo diventa alquanto ridicolo. Non ho seguito in modo particolare le cronache del corteo romano, ma quelle poche foto che ho visto del blocco blu e dei caschi mi lasciano molto perplesso. Sarebbe pure ora di recidere il legame che abbiamo con alcuni gruppi della sinistra antagonista che stanno andando a sbattere contro un muro. Quantomeno non è più accettabile partecipare a queste scadenze nazionali con una parte di movimento che non vuole mediazioni con le pratiche degli altri gruppi ma poi rivendica l'unitarietà e l'internità di tutti i partecipanti al corteo alla loro impostazione. Non c'è il deserto oltre l'immaginario novecentesco del conflitto di piazza e dello scontro con il Potere, della presa del Palazzo d'Inverno etc. Questo è il punto, non c'è il deserto ma ci sono tante cose da apprendere dal passato e tante da immaginarne per il futuro.
Commento 
di @ellepuntopi
compagno presidente, questa mia mozione contraria non vuole essere assolutamente di sfiducia, anzi. lei però sa che fedele alla linea del caro leader nicolazzi ho maturato un approccio ecumenico alle questioni della base del partito, e il termine da lei utilizzato “recidere il legame” urta la mia visione politica. sulla simbologia vetusta e a tratti ridicola usata da certa gioventù del nostro splendido psdi siamo sempre stati d'accordo: la sua incapacità di emanciparsi da un immaginario novecentesco (quando ancora esisteva la fregna, ah che nostalgia a tratti che mi pervade) è certamente un percorso politico che rischia di infrangersi contro muri da essa stessa eretti. detto questo ritengo che questo suo intervento, all'indomani di una manifestazione di piazza in cui le forze del disordine hanno praticato una violenza inaudita, per citare un insigne teorico del psdi, sia abbastanza inopportuno, se posso permettermelo. mi è capitato per caso, mentre passeggiavo il mio cane dudù, di ritrovarmi in mezzo ai fatti ora narrati dalla cronaca. posso anche non condividere lo sterile “assalto” (dove le virgolette del simbolico si dissolvono in quelle della parodia) a luoghi vuoti che nemmeno più oramai simbolizzano il potere, ma le posso assicurare che in nome della prassi di nicolazziana memoria l'appunto più duro da fare sarebbe stato quello di non aver saputo tenere alla prima carica, prima ancora che l'avere sbagliato obiettivo. mi sembra infatti altrettanto improduttivo suddividere i comportamenti in base alla teoria che li accompagna, in un contesto dove la carica della polizia non si ferma in via veneto una volta disperso lo sterile assalto ai cieli di parigi, ma si ripercuote con la di cui sopra violenza inaudita contro quella parte di psdi che in piazza barberini attuava ben altre prassi, alcune proprio le medesime da lei compagno presidente indicate. non di risposta a immaginari sbagliati si è trattata la violenza poliziesca, ma di un proditorio assalto a tutte le prassi possibili e immaginabili presenti sulla piazza: questo è il punto. e all'indomani degli eventi di ulteriori divisioni in seno al già frammentato psdi non se ne sente il bisogno, a mio modestissimo avviso. devotamente suo, le comunico che il ricordo novecentesco della fregna non mi ha ancora abbandonato e che il cane dudù sta bene, nonostante una diarrea ben poco simbolica o immaginaria. 

Commento

di Io
Fuor di metafora, anche io quando ho letto Gino usare l'espressione "recidere il legame con alcuni gruppi della sinistra" ho fatto un salto sulla sedia. Eravamo lì, ancora una volta, a leccarci le ferite e l'idea di recidere mi è parsa istintivamente intollerabile, perché è dal 2001 che predichiamo contro i media che applicano la semplificazione buoni verso cattivi, che noi rifiutiamo. E' scattato l'automatismo (positivo) che riassumo come "an injury to one is an injury to all". Infatti, come si fa a non essere empatici con il racconto di Luca e del povero dudù sulle brutalità della polizia e tutti i dettagli militari su piazza Barberini, i lavori, via Veneto. E poi mi sono accorta che di nuovo avevo spostato il focus sull'aspetto militare. E allora no!

Invece io voglio chiedermi e chiederci: cosa vogliamo? Casa e reddito per tutt*. Sì ma più specificamente? Cosa ci spinge a mettere in gioco i nostri corpi in piazza? Pensiamo davvero che la piazza (quelle piazze, in quel modo) siano un modo produttivo di mettere in gioco i corpi? O non sono piuttosto la triste rappresentazione di una simulata presa del palazzo di inverno a cui siamo condannati in un eterno ritorno dell'immaginario?  (e mi riferisco alle analisi più che fantasiose fatte da rilevanti siti di movimento). E forse solo perché, pur riconoscendone i limiti, non si è disposti a metterlo in discussione? Perché non possiamo dircele queste cose? Perché dobbiamo "add injury to insult", dove ad essere injured (sfruttando il doppio significato) sono i corpi, ma ad essere insultate sono le intelligenze. Perché dobbiamo sempre dare per scontato che chi usa certe pratiche sono i veri rivoluzionari (al maschile volontariamente), mentre chi le discute è un* rompicoglioni, se non una nemica del popolo? Perché di pratiche queer si sente parlare nei salotti rivoluzionari, ma, gli stessi che ne parlano, in piazza non riescono ad uscire dagli schematismi che sento chiamare leninisti, ma che io non definisco così perché sarebbe nobilitarli troppo. E a me non pare che il prezzo che stiamo pagando a questa coazione a ripetere non vale la pena (anzi, addirittura toglie energie dagli obiettivi reali).

Io sono stanca di eroi ed eroismi. Se sono fini a se stessi ancora di più. E non sto negando che esista una rabbia sociale, ma, diciamolo, quella del 12 (e prima) non è espressione popolare di rabbia sociale è un'avanguardia che si dichiara come tale. Anzi, devo addirittura ricredermi sul 15O, dove uno scampolo di rabbia sociale si è espressa. Ma ancora di più, qual è il piano? Intercettare la rabbia per scatenare riot (che abbiam visto a Syntagma e a Taksim hanno breve durata, pur essendo, in quei casi, molto più esteso e cogente)?  E poi? Arresti, botte, forse morti. E poi? Poi si vede... No, da parte mia, preferisco costruire resistenze quotidiane, e per difendere quelle metto in gioco il mio corpo, non per fare a mazzate con la polizia per un palazzo di inverno vuoto.

venerdì 14 febbraio 2014

10 cose che pensano le femministe sul sesso





 

1.       Fare sesso è bello, lo puoi fare con chi vuoi, con quanti vuoi, come vuoi…

2.       Fare sesso è bello, ed è bello far sesso con chi ti piace

3.       Fare sesso è bello, ma se non ti va non c’è nulla di strano in te

4.       Fare sesso è bello, non ha bisogno dell’amore romantico

5.       Fare sesso è bello, non bisogna essere belle/i per far sesso

6.       Fare sesso è bello, ma se qualcosa non ti piace puoi dire no

7.       Fare sesso è bello, anche con se stesse/i

8.       Fare sesso è bello, le uniche cose strane o sbagliate sono quelle che non ti piacciono

9.       Fare sesso è bello, nessuno può insegnarti come si fa

10.   Fare sesso è bello, ma farlo per forza è brutto


Vi risparmio la riflessione sul perché queste sono cose rivoluzionarie... Voi fate un buon San Valentino! 


grazie @La_Geigia o @cutierudegirl -non ricordo più- per la foto

domenica 2 febbraio 2014

I'm not asking for it

Premessa: Nel dibattito pubblico c'è un gran parlare di pompini e del ruolo delle donne in politica (i pompini stessi, pare). Ancora una volta il corpo delle donne è terreno di lotta politica. Le donne sono divise tra sante (quelle d'accordo con noi) e puttane (quelle contro). Ora è superfluo discutere sul quanto questa visione sia misogina e sessuofobica, la sintesi è che io, come altre, mi sono francamente stancata. Sul blog di Eretika è apparso un post (riportato sotto per intero) che, almeno per come l'ho letto io, fa ironia sulle anime belle scandalizzate dall'accusa di fellatio. E ha ragione, perché i primo passo è decostruire e ribaltare il significato degli insulti sessuali alle donne, in modo che chi li fa capisca quanto sia assurdo usare una pratica di piacere come un insulto e forse se ne vergogni, almeno in cuor suo. Ma lo fa raccontando cosa sente una femmina quando cammina per strada. E su questo ho qualche obiezione, perché omette alcuni importanti "particolari". Ho postato il mio commento sul blog, ma è ancora in moderazione. Lo riposto qui, intanto.  


 


Il consiglio è di leggere il post di Eretika ricopiato qui sotto, se non l'avete ancora fatto, e poi il commento. Ma che ve lo dico a fare...  
Non sono d’accordo. Non riesco a fare finta che tutto va bene, che i commenti a cui siamo abituate fin da piccole siano simpatica ironia. Perché so che *ogni* volta che decido di scoprire qualche centimetro in più del mio corpo, di mettermi una gonna più corta o più stretta o una scollatura più profonda, quei commenti e quegli sguardi alla “che te facess’” me li sento appiccicati addosso (e io non sono affatto bella, anzi!).
Il punto è che non mi va il fatto che quando vado in giro le persone credano che, in realtà, stia sempre e solo accompagnando in giro la mia figa. Quei commenti sono non richiesti e certo non cercati, anche se quel giorno mi va di mettermi una maglietta scollata. Ma loro non lo capiscono. La mia non è una posizione sessuofobica, ma quei commenti sono una forma di dominio e di prepotenza. Tu sei un oggetto sessuale per il solo fatto di andare in giro, quindi come tale ti apostrofo. Ma magari in quel momento sto pensando che ho perso il lavoro, che la mia amica ha un problema, che mia sorella è in ospedale, che mi girano e basta. Non li voglio sentire quei commenti.

 E forse non mi va di cimentarmi e provare se l’ironia funziona o se quello è uno dei "pochi" casi in cui no. Perché, dopo aver spiegato con ironia al “compagno di lotta” che mi aveva incatastato contro a un muro che non avevo intenzione di farmi incatastare, mi è stato poi spiegato che o accettavo oppure avrei dovuto dormire per terra, nella casa che ci ospitava per una riunione politica, il tutto nell’ironica indifferenza degli altri due compagni con cui stavamo. Ancora ricordo quella moquette come una vittoria, ma non lo fu.
E benché non mi dispiacerebbe il pigiamino ri saliva co’ rinforzu ‘ntò cavaddu, vorrei essere libera di decidere io quando ne ho voglia. Pure solo di sentirmelo dire.
 
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Fellatio? Ovvio che si. Vieni che te lo spiego per benino…
dal blog Abbatto i Muri
Ti facissi un pigiamino ri saliva co’ rinforzu ‘ntò cavaddu” (ti leccherei tutta concentrandomi su un cunnilingus) fu uno dei tanti cortesi abbocchi da corteggiamenti di strada palermitana ai quali, immagino, le parlamentari del Pd avrebbero reagito con moltissimi mancamenti.
La strada di Palermo d’altro canto è un po’ così: quando tu passi sei come un link condiviso su un social network e chiunque si prende il diritto di dedicarti la frase che preferisce. Così io ho conosciuto la metà dei sogni e dei desideri sessuali di taluni palermitani. Perché quando si pronuncia una faccenda che ha a che fare con il sesso state tranquille che si tratta di una sua fantasia.
Dunque ho saputo che con le mie tette avrebbero voluto farsi una sega, rivivere la primissima infanzia, addormentarcisi, uno voleva addirittura usarle come sfere per leggere il futuro. Qualcuno me le ha chieste in prestito per pensare e un tale, una volta, poggiò la mano su un seno e disse che da lì arrivano terminazioni nervose che gli avrebbero risvegliato i neuroni. Quando ero picciridda, dovete sapere, che averci le tette, che dalle mie parti si dice Minne, pronunciato come Minnie di Minnie e Topolino, significava innanzitutto avere una specie di mensola dove compagni vari schiacciavano pisolini, nascondevano puzzuddicchi ri carta e cianfrusaglie varie, e, all’occorrenza, mi dicevano che l’altro strumento proibito si chiamava “sticchio“.
Mi sto chiedendo adesso: avranno mai detto la parola “sticchioalla Marzano? Vabbè, passiamo avanti. La parola sticchio era assai raro che si associasse ad altro sticchio. L’omofobia nell’adolescenza è un fatto certo e dunque sticchio e ciolla, o pinna, pinnuzza, o minchia, erano destinati a stare insieme e così sarebbero stati felici e contenti.
Lo sticchio, a differenza delle minne, quando cammini non si vede e dunque i riferimenti degli ammiratori di strada su quella zona del mio corpo erano più vaghi. Essendo che è una cosa della quale immaginano una conformazione a buco che parte da un lato e finisce più o meno nell’orecchio, il desiderio espresso era di interpretare il ruolo di un trapano a tre punte, di perforare il monte bianco, di toccare vette irraggiungibili e c’era l’immancabile “veni ccà che ti faccio donna“.
Il culo era generalmente oggetto di osservazioni di scarso profilo filosofico. Lì ci si dedicava alla geometria. E’ tondo, a pera, parrebbe quasi un parallelepipedo, no, è un cilindro, invece è una doppia sfera, dura, citrigna, un mamma mia chi ti facissi, che ci stava sempre bene e per finire un lieto e più romantico “ti mittissi a picurina” che era una specie di invito a festa.
L’altra zona di interesse era la bocca. Le labbra, la lingua, fino ad un certo punto ho immaginato che il gelato fosse stato creato apposta per farci esercitare nei preliminari di un pompino, perché, confesso, la prima volta che ne feci uno andò proprio così. Iniziai di lato, poi un po’ giù, poi un po’ su, poi succhiavo e leccavo e all’improvviso ops mi si raddrizzo il cono e non avevo mai visto una cialda così citrigna.
In strada non ti dicono se e come resti incinta, come salvaguardare la tua salute, quando e come il piacere ti può toccare, qual è la parte della sessualità che puoi indagare per te stessa, a parte quella in cui impari a dare piacere, perché la cosa che probabilmente a Palermo le parlamentari del Pd non avrebbero apprezzato è il fatto che è una scuola di educazione sessuale a cielo aperto dove ti educano gentilmente a far godere. Però ricambiano, eh, appunto. La prima volta che sentii parlare di cunnilingus fu a proposito del pigiamino di saliva con il rinforzo sul cavallo. Un po’ contorto ma d’effetto. Poi c’era l’eterno riferimento al ditalino masturbatorio, ché poi era la cosa più facile da gestire in fai da te. E quando si passò alla penetrazione devo dire che ero già un’amante navigata. A livello teorico.
La cosa che ho imparato soprattutto è stata l’ironia, la leggerezza, l’atteggiamento per niente moralista. Ero assai timida da piccola ma poi crescendo trovavo le risposte, per dire si o no, rispondere a tono, rifiutare senza scandalizzarmi, a volte, con il mio italiano da colonia savoiarda (maledetti!), ché bisognava impararlo a casa perché a scuola nessuno valorizzava il tuo dialetto, mi ritrovavo a chiedere al tizio cosa significasse quel tal termine pronunciato in dialetto stretto. Già solo chiederne il significato disinnescava, perché alla fine dietro chiunque io abbia incontrato, salvo stronzi senza fine con i quali è impossibile parlare, c’è sempre una risata, un po’ di autoironia, pronti a venir fuori.
Da grande poi attraversare la strada diventò semplicemente un modo per ripassare i tanti saperi rubati e ereditati. Dunque, pensavo, se mai qualcuno a me dovesse chiedere se ho fatto pompini in vita mia, ma certo, io direi, eccome se li ho fatti, e spiego anche come, perciò ti siedi, mi ascolti e te lo fai raccontare per filo e per segno senza mai toccarti, grattarti, e non devi neppure arrossire. Ti spiego, sussurrando, che te lo prendo piano in per di qua e poi lo giro in per di là e poi lo lecco in per così e poi lo succhio in per colà, e sono davvero brava, che ti credi… Se tu mi chiedi se l’ho toccato, preso, rigirato, goduto, avuto, bagnato, te lo racconto come se fosse l’ultima storia che tu dovrai ascoltare nella vita. Infine ne avrai talmente voglia che rimarrai consumato, ancora lì, con le tue fantasie irrealizzate, e se non mancherai di darmi della troia per inappagamento dirò che ovviamente lo sono e lo sono anche tanto. Sono una troia senza se e senza ma. Sono una porka che ti fa sospirare porkaggine anche a distanza. Sono una tale passionale creatura che dovrai pentirti per le domande che mi hai fatto. Infine se ritieni che quanto ti avrò detto costituirà una specie di approccio tra me e te e lì che sbagli, perché tu chiedi e io rispondo e rispondo proprio bene. Dopodiché però ciao. D’altronde, che altro potresti voler chiedere a quel punto?
[once again, l'originale è su Abbattiamo i muri qui]

mercoledì 15 gennaio 2014

Due robe a caldo sul lavoro immateriale

[questo post fa riferimento a una chiacchiera su twitter con @anubidal @vsBakunin @lotticarlotta a proposito della campagna CoglioniNo. Quindi probabilmente interessa solo loro. Ammesso che ricordino quello di cui si parlava stamattina :)]

Il fatto che è noi lavoratori e lavoratrici dell'immateriale siamo sfruttati esattamente come gli altri.
Anche l'inserviente che, a seguito di una privatizzazione, passa dall'essere lavoratrice comunale, ad essere assunta da una 'cooperativa' subisce il ricatto: "non ci sono soldi per questo progetto" e deve accettare di abbassarsi drasticamente la paga o perdere il lavoro.

O il falegname indipendente che fa lavori gratis a casa del titolare di un'impresa edile perché poi questo gli darà visibilità e opportunità di lavoro.

L'unica differenza è l'illusione che noi (studiati e indipendenti) ci eravamo illusi di appartenere a un'altra classe. Quella degli 'imprenditori' che creano ricchezza. Ci hanno raccontato che il nostro destino, e magari quello di altri (quando non del paese intero-ricordate i fannulloni?), dipendeva solo da noi stess* e che dovevamo competere con i nostri pari per emergere, per crescere. Seguendo questo siamo rimasti soli.

Quando non ci hanno reso sfruttatori dei nostri simili. Convincendoci che la strategia del massimo profitto fosse più vantaggiosa della cooperazione. E cosi, quando ci serviva, che so, uno sviluppatore o una video maker, invece di cooperare e spartire il soldo, ci siamo fatti padroni.

E una volta isolati, non è difficile farci arretrare sempre di più, fino a non pagarci del tutto.

 Abbiamo dimenticato che significano i rapporti di forza, e il valore che è determinato si dal nostro lavoro ma anche dal rapporto di forza che siamo in grado di mettere in atto. Prendiamo il caso dei blogger dell'HuffPost US. All'inizio hanno accettato di lavorare gratis. Per la visibilità e bla bla. Poi l'HuffPost se lo è comprato AOL per 315milioni di dollari. Allora è diventato evidente il valore che anche i blogger avevano contribuito a creare. Ma era troppo tardi a quel punto, e così hanno perso la causa.

Certo, a volte è più difficile per noi misurare il valore che ha per gli altri il nostro lavoro, perché come lo misuri il "Return on Investment"? E perché, a differenza di altri lavori, o scrivo su questo blog per mio diletto o scrivo un post per terzi, sembra che stia facendo la stessa cosa. Invece noi sappiamo bene che non è così. Il difficile è spiegarlo, prima a noi stesse, e poi ai clienti e ai partner. Per questo abbiamo un disperato bisogno del "fare insieme" sia in termini di co-working orizzontale sia nella costrizione di una soggetto collettivo di tipo sindacale plurale e aperto, sia, infine (e perché non è che abbia molte speranze nelle leggi) soggetti autonomi in cui generare rapporti di tipo mutualistico che sono particolarmente importanti in lavori che tipicamente non hanno una continuità retributiva (figurarsi contributiva!).

Altro che #guerrieri . Meglio chiedersi what are you fighting for?


(...lo so che non c'entra ma mi piace :))