lunedì 18 novembre 2013

Less is more. Pre-recensione al buio del nuovo disco di Kento

Nel panorama variegato (e spesso discutibile) del rap italiano Francesco “Kento” Carlo è una bella scoperta. Nonostante Kento sia in giro sulla scena da un po', il mio incontro con la sua musica è stato abbastanza recente. I singoli Sacco o Vanzetti e soprattutto Stalingrado (2010) sono stati praticamente un colpo di fulmine, e poi a cascata tutto il resto. Il sound è quello giusto e le parole ti accompagnano tra strada, lotta, vita e mille riferimenti.
 

Ora Kento sta lavorando a un nuovo album, una nuova opera prima, così la chiama.

Complice la curiosità e una domenica pomeriggio un po' libera da impegni, ho estorto a Kento (via twitter) qualche informazione in più su quello che promette di essere un lavoro di ampio respiro, ricco di contaminazioni. Ed in effetti, dalla conversazioni sono emersi molti spunti e suggestioni. Restituisco tutto qui.
 
La prima curiosità era proprio sul significato di "seconda opera prima". Un ossimoro.
K: Sono molto contento del lavoro precedente, sia come suono sia come scrittura. Se dovessi riscriverlo, lo rifarei uguale. Così ho deciso di non continuare in quel percorso che non mi farebbe andare avanti. Ho cambiato completamente suono. Il primo disco era tutto campionato, questo è suonato. E ho cambiato scrittura. Ho studiato le tecniche dei bluesmen, di alcuni poeti, performer e rapper. Ho ricominciato da zero, quindi è un “primo disco”.
 
D:  Cosa ti attira dei linguaggi che hai menzionato?
K: Il disco vuole essere un omaggio alla musica afroamericana delle origini, quindi a partire il delta blues. I bluesmen hanno sviluppato tecniche di scrittura eccezionali: l'immediatezza, la delivery, e poi il double talk. Un modo per poter parlare di razzismo e di problemi scottanti in un epoca in cui era assolutamente proibito.
 
D: Invece tra i poeti e i performer, quali sono i tuoi riferimenti?
K: Per quanto riguarda i poeti e performer penso a Linton Kwesi Johnson, Mutabaruka, i Last Poets, Amiri Baraka, Saul Williams. E poi Slam Papi: Marc Kelly Smith.



(I know, è un video vecchio. Ma mi piace assai. Apologies)

D:  Dunque il nuovo disco è suonato. Non temi che questo possa finire col prevalere sul rap?
K: L'ispirazione è stata Blakroc un disco del 2009. Suonato dai Black Keys con vari rapper ospiti. un sound che mi ha folgorato. I Roots fanno rap suonato da sempre. Ma è chiaro che è anche una sfida per me. Presuppone, forse, una certa dose di incoscienza. Ma i ragazzi sono fortissimi, sta a me esserlo altrettanto.
 


D: Come hai lavorato ai testi per il disco? Cosa ci sarà?
K: C'è l'elemento lirico/personale e quello sociale/collettivo. A volte è difficile tracciare un confine tra le due sfere. Anche per me. La mia scrittura è istintiva, non ho sempre il controllo di quello che scrivo, a volte neanche delle parole che uso. Scrivo in maniera molto veloce, di solito chiudo una strofa in un'ora, a volte anche meno. L'ultima strofa di Stalingrado, a mio avvisa una delle mie cose migliori, l'ho scritta in meno di 20 minuti.
(A questo punto io sono scettica, evidentemente si vede anche via twitter. Azzardo qualche obiezione)

K: La produzione è istintiva, ma lo studio che faccio è molto ragionato. Ora sto lavorando sulla sottrazione: togliere parole, sillabe, semplificare i concetti. Come Miles Davis con le note. In un post che ho letto ho trovato riassunto il senso di questo lavoro: "Listening to Davis taught me [...] the value of experimentation and reinvention, the fact that it was all right to change, to try new styles, even when evolution meant abandoning your old comfortable routines, or worse, forsaking peoples’ favorites.see more  

D: Come coltivi il tuo istinto?
K: Leggo molto e ascolto molta musica. Sono uno che somatizza i prodotti culturali. L'ascolto di un brutto disco può anche rovinarmi la giornata. Ma quello che studio, se mi piace, diventa mio senza fatica. Poi sono del parere che il rap sia espressione di strada, grezza e istintiva, e io non so scrivere altrimenti.
D: Dici che somatizzi, mi dici un disco che, di recente, ti ha rovinato la giornata e uno che te l'ha migliorata?
K: Se vuoi titoli secchi, il disco reggae di Snoop Dogg aka Snoop Lion mi ha disturbato abbastanza. Mentre sul fronte positivo da qualche giorno ho in cuffia il disco del beatmaker e mc FFiume (con 2 ff tiene a precisare, ndr).

Ma alla lunga twitter è stancante, così chiudiamo qui lo scambio. Io resto con la curiosità di ascoltare il disco di Kento con le sue sfide molteplici: coniugare complessità e sottrazione, l’istinto e riferimenti, rap e band. E vedere che effetto fa quando more becomes less. But not least.

giovedì 7 novembre 2013

Che tempi, Signora mia!


Questo post dovrebbe aumentare abbastanza le visite al blog, infatti parliamo di pompini e adolescenti. Perché tra tutte le cose moraliste, classiste e misogine (tipo: "Se avete figlie femmine lo sapete anche meglio.") che Concita De Gregorio è riuscita ad infilare in un unico articolo ce n'è una che mi ronza in testa e che secondo me è la summa di tutte le su menzionate qualità dell'articolo.
Concita ad un certo punto racconta di una vicenda che (sarebbe) avvenuta in una scuola nei pressi delle zone di provenienza delle baby prostitute (a 16 anni non sei baby, ndr). O almeno così lascia intuire la prosa allusiva dell'autrice ("una scuola di zona" scrive). Il brano è questo (grassetti miei):
"Alcune quattordici-quindicenni organizzano a ricreazione un torneo che si svolge nei bagni della scuola. Le ragazzine stanno nel bagno, offrono una prestazione di sesso orale ai maschi che per iscriversi al torneo devono pagare cinque euro. La gara è a chi conclude più rapporti, a chi fa scemare la fila più presto. La fila è lunga, ogni aspirante paga cinque euro. Si paga comunque, il rischio da correre è che arrivi il tuo turno o non arrivi. Il certamen è pubblico, la vincitrice accolta da applausi. Comunque le gareggianti portano a casa cinquanta euro, anche di più, ad ogni prova. Si fanno soldi, così. Soldi che a casa non ci sono o non ti danno, soldi per pagare la ricarica del cellulare e per pagarsi la birra e presto qualcos'altro, la sera. Di nuovo qualche genitore denuncia, di nuovo intervengono gli psicologi. Da una relazione del tempo: "Sgomenta l'assenza di pudicizia, di senso della riservatezza e dell'intimità. Il commercio del corpo considerato la norma, nessuna censura corre tra i coetanei, solo la presa d'atto di un'abilità".

De Gregorio non cita le fonti. Era veramente un torneo? O era piuttosto un gioco un po' spinto? Ovviamente, i maschi accorrono in massa, eggià c'è l'offerta, l'omo è omo, mica si può tirare indietro... Ma devono pagare 5 euro (per iscriversi al torneo dice la nostra, ma allora chi gareggia? i maschi o le femmine? di solito ai tornei si iscrive chi partecipa, non chi fa il tifo. Ma vabbè). L'autrice ci tiene anche a farci sapere che i poveretti pagano anche se "rischio da correre è che arrivi il tuo turno o non arrivi". Capito? Cose da matti, signora mia! Non c'è più un'etica nel commercio. Il giovane si priva di preziosi 5€ e manco sa se avrà quello per cui ha pagato. Secondo me ci sono i presupposti per denunciare queste vampire per frode.

Il pezzo non propone nessuna discussione su perché i maschi si mettono in fila. Ovvio, mi direte, loro lo fanno per il sesso. Ma vale solo per i maschi. Non viene in mente che anche le ragazze abbiano voglia di scoprire, giocare e fare sesso? No, loro lo fanno per i soldi: "e per pagarsi la birra e presto qualcos'altro, la sera". Qui la prosa è un capolavoro di allusioni moraliste: innanzitutto la birra, ma soprattutto (presto) quel "qualcos'altro" (cosa? il gin tonic? la cocaina? lo speed?, ma presto quando?) e quel "la sera" buttato lì- perché si sa che le brave ragazze la sera dovrebbero stare in casa. Che si sa "si inizia con la marijuana (in questo caso la birra) e si finisce a battere per una dose di eroina..." Ma queste sono giovani "cresciute troppo in fretta": iniziano a battere addirittura prima di drogarsi, per mettere da parte i soldi, che nella vita non sai mai quando potresti iniziare. Signora mia, i giovani oggi son svegli però! Mica come ai miei tempi...
Il passaggio si chiude con la relazione degli psicologi (?), in perfetto stile signora mia. Chi ha redatto la relazione è sgomento. Signora mia! Queste giovani non hanno nessun pudore! Con il senso del pudore si intende il sesso in maniera normativa, si fa solo in due, si fa in una stanza chiusa, e comunque è una cosa da nascondere. Infatti, subito dopo, parla di riservatezza e intimità. Ci sono cose che si fanno ma non si dicono, e che diamine! De Gregorio, e, più grave, gli psicologi, sono frutto di una cultura sessuofobica e cattolica. Innanzitutto non riescono a riconoscere gli adolescenti come persone, e men che meno come persone che hanno una sessualità. E poi non concepiscono la sessualità come il libero esercizio di un desiderio, ma come un'istituzione normalizzata, una cosa di cui vergognarsi, da vivere nell'intimità e nella segretezza (e son sorpresa dell'assenza della parola rimorso). 
Allora (e qui viene il mio momento "signora mia") quale risposta sono in grado di dare queste persone dall'orizzonte così ristretto ai bisogni e alle curiosità degli adolescenti? Biasimo e sgomento?  e poi, ci si sorprende se ci sono giovani omossessuali che si ammazzano...


E, niente, tutta questa storia mi ha fatto venire in mente questa canzone. Mi piace e ce la regalo.
Grazie a @akaMartinika per la foto in testa, cioè il primo shot (shock).

martedì 1 ottobre 2013

La campagna Coconuda sulla violenza sulle donne. Ovvero: ma a voi femministe non vi va mai bene niente?

A fine agosto la casa di abbigliamento Coconuda ha lanciato una campagna sul tema della violenza sulle donne. Protagonisti la cantante Anna Tatangelo e un creativo della casa, Fabio Coconuda. Io posso anche fingere che la campagna nasca dall’impegno sociale dell’Impresa Italiana che, consapevole dell’importanza del tema, soprattutto dell’educazione sentimentale dei giovani e delle giovani, vuole sensibilizzare il proprio target contro la violenza sulle donne. 

Ma guardando la foto io ci vedo solo due interpretazioni possibili.

La prima, quella che mi è venuta in mente immediatamente prima di avvicinarmi e leggere claim (anche se molti altri post non concordano). Quella rappresentata è una scena di violenza domestica. Infatti io ho subito pensato che fosse l'ennesima provocazione (come quel detersivo che “cancellava tutte le tracce”).


Lei è accasciata in avanti, camicia scomposta, gambe nude, rannicchiata, e soprattutto ha quella lacrima che le solca il viso. Lui è dietro di lei, appoggiato al muro, a me pare stanco e arrabbiato. Come un uomo che ha appena picchiato la donna che “ama”. I due non si toccano (non c'è alleanza, ci tornerò dopo) lui ha la mano aperta, con un gesto che potrebbe anche essere minaccioso. Anche se sulla mano è scritto 'basta'. A me è sembrata la scena che una volta mi ha raccontato una mia amica che aveva un fidanzato violento. La picchiava, la umiliava, poi si dispiaceva e prometteva che basta, non lo avrebbe fatto mai più. Così lei lo perdonava, ogni volta, per un intero anno. 

La seconda interpretazione, è invece quella paternalistica. Lei è accasciata, lui, non complice ma protettore, alza la mano verso il mondo fuori e dice che ora 'basta'. Da oggi c'è lui che la difende.

Qualunque sia l'interpretazione più plausibile, e quale che fosse l'intenzione del fotografo (o fotografa) e del team creativo, quello che colpisce è l'immaginario sulla violenza e sulla donna che viene veicolato e da cui attinge questa (e molte altre) campagne. La donna è il sesso debole. Non è lei a ribellarsi, fiera e forte, alla violenza. Ha bisogno di un tutore, di qualcuno del sesso forte che la protegga. La donna piange, l'uomo la salva. Come accennavo prima, non si tratta di un'alleanza, che sarebbe indispensabile per un reale cambiamento culturale, ma di un rapporto di dipendenza (o di dominio, è uguale). Il fatto che non si tocchino, che non siano sullo stesso piano, che non dicano basta insieme sono parte di quella visione che, in fondo in fondo, giustifica le violenze domestiche.

Per una volta vorrei vedere donne forti con uomini altrettanto forti, a testa alta, che affrontano la violenza e i violenti, insieme e senza paura, forti di un nuovo immaginario. Ma ci vuole ancora tanta fatica…

martedì 18 giugno 2013

Contro l'open access

Questo è un commento all'interessante e molto ben documentato post di Andrea Raimondi sui dati dell'uso delle piattaforme Open Science e delle pubblicazioni Open Access negli atenei Italiani.
Avrei voluto postarlo direttamente come commento, ma purtroppo non avendo un account Facebook (nè aol, nè  hotmail) pare che non possa inserire i commenti lì. Lo metto qui esattamente come lo avevo scritto.

Contro l'open access

Ciao, sono Daniela, mi occupo di pubblicazioni scientifiche da 10 anni -come managing editor prima e ora come authors editor-  odio la Elsevier ma ho moltissime riserve sul sistema di pubblicazioni di articoli open access così come si sta configurando come modello di business.

In principio è tutto bello, come diceva un vecchio slogan di PLOS: we write the papers, we review them, why should we pay to read them? Inoltre è indubbio che le grandi case editrici tradizionali monopoliste speculano in maniera vergognosa con aumenti annuali fino al 10% degli abbonamenti (ogni maledetto anno) e che questo causa una grave restrizione nella circolazione del sapere.
Ma il modello di business che si sta affermando per l’open access è altrettanto diabolico e per di più rischia di far spendere per le pubblicazioni addirittura più delle riviste tradizionali.
Per pubblicare su una rivista open access (di medicina o biologia) agli autori viene richiesto di pagare dai 1000 ai 3000 dollari, come production fee. BMC si sta imponendo con questo modello soprattutto ad esempio per riviste di piccole e medie società scientifiche.
Questo dato non va separato dalla visione “publish or perish” che lega quantitativamente la carriera dei ricercatori al numero di pubblicazioni (che esiste in tutto il mondo tranne che nei paesi anglosassoni che, avendo più esperienza, hanno capito che così non va).
Dunque, se la loro carriera è legata al numero di articoli che pubblicano, i ricercatori avranno una grande domanda di spazio per pubblicare (indipendentemente dalla qualità e dall’importanza dei dati). Ed è qui che le riviste cosiddette open (in realtà “auto pay”) prolificano. BMC, fondata nel 2000, ha ormai 255 titoli. La maggior parte, credimi, di scarsissima qualità.
Quindi tutto sommato, ben venga lo scambio dei paper su Academia.edu o sugli open repository, ma credo che l’open access vada considerato criticamente tenendo conto degli aspetti che ho brevemente illustrato sopra. Inoltre credo che il vero terreno di battaglia sia quello, percorso da Tim Groves, che costringa le case editrici a mollare una parte dei loro profitti, oppure, meglio ancora promuovere pubblicazioni curate da  istituzioni che vogliano investire in un vero open access.  


mercoledì 5 giugno 2013

Devastazione e saccheggio del senso di giustizia

"Esistono cose che sono legali ma che sono profondamente ingiuste"
Un prete della Sanità, Napoli


Oggi due brutte notizie una dopo l’altra. Prima la notizia che i giudici hanno assolto i poliziotti e gli infermieri che hanno ammazzato Stefano Cucchi mentre era detenuto (i medici sono stati condannati ma la pena è stata sospesa). Poi subito dopo la notizia dell’arresto di uno dei manifestanti condannati per devastazione e saccheggio per il G8 di Genova nel 2001 che aveva scelto la latitanza. Quest ultimo era stato condannato a 15 (quindici) anni e ora andrà in carcere, come in carcere sono Marina e Alberto. Colpevoli tutte e tutti di aver partecipato ad una manifestazione internazionale, una manifestazione dove, secondo Amnesty International c’è stata: "La più grande sospensione dei diritti democratici, in un paese occidentale, dalla fine della II guerra mondiale".
Cosa c’entra con Stefano Cucchi? C’entra c’entra... non fate gli gnorri. C’entra perché  Stefano è stato ucciso e pure a Genova nel 2001 lo Stato ha ucciso un ragazzo di 20 anni. C’entra perché sia nel caso dell’assassinio di Cucchi sia a Genova le forze dell’ordine sono colpevoli e in entrambi i casi o sono state assolte o le pene sono state praticamente simboliche. Ma invece se picchi un bancomat (o meglio se eri vicino ad un posto dove è stato picchiato un bancomat) lo Stato si vendica e ti da 10 anni, o più.
C’entra perché in momenti come questo mi vien voglia di tornare indietro. Di riannodare i fili della memoria e mettere ordine nel flusso di informazioni in cui mi immergo quotidianamente. Così decido di tornare indietro a quella condanna di devastazione e saccheggio (un reato del codice fascista, btw). E sono andata a cercarmi gli articoli sulla condanna dei/delle 5 manifestanti a Genova.


Vi ricordate come titolava l’Unità, organo del PD, sulla sentenza-vendetta agli attivisti del G8? Ecco il titolo di un giornale progressista di un paese occidentale. L'articolo qui per vostro maggior diletto.


Ci sono state condanne fino a 15 anni per un reato praticamente inesistente e l'Unità decise di mettere il focus sulle "pene ridotte". 

E come avrà titolato l'Unità, giornale progressista di una paese occidentale e organo del PD, a proposito della sentenza della Cassazione sul caso Diaz? 



Non una parola sulla prescrizione dei reati di lesioni gravi (cfr. l'articolo dettagliato del Fatto Quotidiano già linkato sopra).

L'alieno che, malcapitato, si fosse trovato  in Italia in quei giorni e avesse letto  l'Unità, avrebbe pensato (come forse il lettore del giornale) che questo è un paese con una giustizia esemplare. Magari tornerebbe sul suo pianeta e proverebbe a convincere che questo è il sistema di giustizia democratico da adottare. I buoni condannati (ma non troppo) e i cattivi tutti nientepopodimeno che "azzerati".

E poi mettiamo che l'alieno abbia deciso di tornare sulla terra oggi, e abbia letto della strana sentenza Cucchi.  
E come glielo spieghi all'alieno (e al lettore dell'Unità) che in realtà la giustizia in questo paese è due pesi e due misure? E che, come ho letto oggi non so più dove, i piatti della bilancia della statua che adorna i tribunali sono vuoti in modo che lo Stato o i giudici poi ci mettano quello che vogliono?

Solidarietà alla famiglia di Stefano Cucchi
Solidarietà a tutt* i condannati e alle condannate per Genova 2001
Un pensiero ad Alberto, Francesco e Marina a cui lo Stato devasta e saccheggia la vita
Agli altri/e: Fly baby fly