martedì 18 giugno 2013

Contro l'open access

Questo è un commento all'interessante e molto ben documentato post di Andrea Raimondi sui dati dell'uso delle piattaforme Open Science e delle pubblicazioni Open Access negli atenei Italiani.
Avrei voluto postarlo direttamente come commento, ma purtroppo non avendo un account Facebook (nè aol, nè  hotmail) pare che non possa inserire i commenti lì. Lo metto qui esattamente come lo avevo scritto.

Contro l'open access

Ciao, sono Daniela, mi occupo di pubblicazioni scientifiche da 10 anni -come managing editor prima e ora come authors editor-  odio la Elsevier ma ho moltissime riserve sul sistema di pubblicazioni di articoli open access così come si sta configurando come modello di business.

In principio è tutto bello, come diceva un vecchio slogan di PLOS: we write the papers, we review them, why should we pay to read them? Inoltre è indubbio che le grandi case editrici tradizionali monopoliste speculano in maniera vergognosa con aumenti annuali fino al 10% degli abbonamenti (ogni maledetto anno) e che questo causa una grave restrizione nella circolazione del sapere.
Ma il modello di business che si sta affermando per l’open access è altrettanto diabolico e per di più rischia di far spendere per le pubblicazioni addirittura più delle riviste tradizionali.
Per pubblicare su una rivista open access (di medicina o biologia) agli autori viene richiesto di pagare dai 1000 ai 3000 dollari, come production fee. BMC si sta imponendo con questo modello soprattutto ad esempio per riviste di piccole e medie società scientifiche.
Questo dato non va separato dalla visione “publish or perish” che lega quantitativamente la carriera dei ricercatori al numero di pubblicazioni (che esiste in tutto il mondo tranne che nei paesi anglosassoni che, avendo più esperienza, hanno capito che così non va).
Dunque, se la loro carriera è legata al numero di articoli che pubblicano, i ricercatori avranno una grande domanda di spazio per pubblicare (indipendentemente dalla qualità e dall’importanza dei dati). Ed è qui che le riviste cosiddette open (in realtà “auto pay”) prolificano. BMC, fondata nel 2000, ha ormai 255 titoli. La maggior parte, credimi, di scarsissima qualità.
Quindi tutto sommato, ben venga lo scambio dei paper su Academia.edu o sugli open repository, ma credo che l’open access vada considerato criticamente tenendo conto degli aspetti che ho brevemente illustrato sopra. Inoltre credo che il vero terreno di battaglia sia quello, percorso da Tim Groves, che costringa le case editrici a mollare una parte dei loro profitti, oppure, meglio ancora promuovere pubblicazioni curate da  istituzioni che vogliano investire in un vero open access.  


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